"Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti." "Avanza qualcosa?" "Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io."

venerdì, novembre 20, 2015

Kepler's Law (extended version)

Intorno a fuochi ellittici si gira,
compiendo rivoluzioni ordinarie.

Un’ora ci si abbatte; si delira
un’ora appresso. Poi, lievi e precarie

ci riattraggono speranze, magnetiche,
e ci spingono, incoscienti, su rotte

già battute di tristezze patetiche.
Intanto si fa giorno, intanto notte.

lunedì, settembre 29, 2014

Whitehead's illusion

Le cose cambiano. A questo stavo pensando, appena salito. Si è chiamato il Novecento il secolo breve, per la velocità con cui ha masticato e digerito guerre, regimi, crisi, democrazie, fatti, uomini e pensieri. È vero, è stato così: basti pensare alla Russia, che fino all'ottobre del 1917 era un ultimo scampolo di medioevo e che nel 1961 ha mandato il primo essere vivente nello spazio. Se avesse senso parlare di velocità di crociera della Storia, il Novecento ha messo un tigre nel motore e spinto a tavoletta, fino a mandare il mondo completamente fuori giri, come un cavallo che ha rotto l’andatura, una ghiera senza catena. Tutto oggi muta istantaneamente, per necessità, per obbligo, senza una vera corrispondenza tra una condizione attuale ed un'altra che, desiderata, giustifichi un cambiamento. Ogni cosa evolve ormai meccanicamente, con l’inerzia di una palla che scivola lungo un piano inclinato, senza che si riesca più a capire se ciò possa o invece debba accadere.
Pensavo tutto questo, perché non sentivo più odore di treno. Alzi la mano chi non ricorda quell'impasto inconfondibile di polvere, fumo e ferro che significa immediatamente treno. A tutti è rimasto nelle narici. Quel profumo non esiste più, a meno di non andarselo a ritrovare nelle toilette, anzi nelle ritirate.
Le carrozze di oggi sono cabine di aereo su strada ferrata: asettiche, fredde e densamente popolate. Quando costruiranno convogli ancora più tecnologici, ovattati, innovativi, perderemo anche quell'infinita sequenza di giambi a coppie (ta-tà, ta-tà… ta-tà, ta-tà… ta-tà, ta-tà…) che accompagna ed aiuta i nostri pensieri mentre viaggiamo.
Questo pensavo, sistemata la mia borsa di tela sul portabagagli trasparente e sedendomi al posto numero 51. Già, il posto non si sceglie. Ti viene assegnato già prima di iniziare il viaggio. Come nella vita, del resto: tu nasci e mica lo sai di chi sei figlio, in che posto ti tocca vivere e con chi ti tocca di fare gran parte della strada. A me è andata bene. Nella vita, intendo.
Su quel treno, invece, ancora non lo sapevo. Beh, avrei avuto diversi compagni quel giorno, visto che il mio viaggio sarebbe durato più di 8 ore. Ma sarà poi ancora giusto chiamarli compagni? È cambiato anche il modo di stare sul treno. L’individualismo del nostro tempo ha stravinto anche nel viaggio: un tempo erano chiacchiere ai limiti della molestia e panini con la frittata, scartati dalla stagnola, morsi e subito dopo offerti allo sconosciuto compagno di viaggio; oggi sono iPod ben calcati nelle orecchie, occhiali da sole anche d’inverno e telefoni attraverso cui accedere all'unico universo in cui si pensa di poter riuscire a sopravvivere.

giovedì, aprile 11, 2013

Un Haiku de Catalunya


Pallina. Fragile piccola bella
sola impaurita spiumata. Sorella.
Orfana in armi minuscola stanca,
la mano tesa alla mano che manca.

mercoledì, dicembre 08, 2010

Long time no see

La letteratura d’ogni genere e livello è popolata di personaggi (quasi sempre si tratta in verità di giovani fanciulle) che dolori troppo forti hanno resi muti, reclusi in un recinto dell’anima, protetti da silenzi invalicabili. Sono persone gentili e spezzate, non più desiderose (o interessate o semplicemente capaci) di far sì che una parte di sé - un pensiero, un’emozione - sia condivisa con altri. È condizione assai misera, tanto che verso questi personaggi il lettore prova immediatamente un sentimento di simpatia.
Persone così non abitano esclusivamente i romanzi. Non sono uno psicologo e non so, perciò, individuare con certezza le ragioni per le quali ci si autoesclude dal consesso dei propri simili.
Ci si difende da possibili future nuove sofferenze? Si vuole punire gli altri con il proprio sdegnato rifiuto? È la consunzione di ogni fiducia nella forza e nell’utilità della parola? O, invece, è una forte paura di se stessi e delle proprie pulsioni che porta a rinchiudersi in sé? Forse tutte queste cose assieme. Ripeto, non lo so.
So solo che oggi scrivo su questo blog dopo più di tredici mesi di silenzio. Di esso, in questo lungo periodo, ho ovviamente cercato di capire le ragioni. Ne ho trovate più d’una e ognuna di esse contiene senz’altro una parte di verità.
Di certo l’intensità delle mie giornate (come di quelle di tutti coloro che lavorano e cercano di non lasciare che il lavoro sia il dominus incontrastato della propria vita) non mi consente di far sedimentare tutte le informazioni che pure con fatica cerco di mettere insieme. Si scrive senz’altro ciò che si è pensato e l’esercizio del pensiero richiede tempo e, soprattutto, forza. A volte mi sembra di essere su un treno a guardare il mondo che scorre svelto dal finestrino: vedi una casa e subito dopo un albero, ma di quella casa e di quell’albero sai dire soltanto che essi sono una casa e un albero.
Sono anche stato tentato di credere che questa lunga interruzione delle mie trasmissioni si dovesse alla sensazione (niente affatto gradevole) d’aver già detto molto, se non tutto, e che scrivere nuovamente significasse tutt’al più ribadire - magari meglio, con nuovi argomenti e nuovi esempi - gli stessi contenuti.
È scoraggiante, spesso, rendersi conto di non aver niente da dire.
Se, come dissi nel primo post di quasi cinque anni fa, questo blog è stato aperto in omaggio alle piccole mistificazioni, ebbene ho tenuto ferma la barra con insospettabile coerenza, perché in verità il mio silenzio non si deve alla mancanza di tempo o di argomenti. Quelle ragioni (pur fondate) sono state solo il modo sottile con cui ho provato a sedare l’inquietudine che mi provocava non avvertire alcuna voglia di comunicare.
Credo, invece, di non aver più scritto per mancanza di coraggio.
L’odio è un sentimento che non mi concedo. Ho sempre cercato di non odiare mai nessuno, fin qui – credo – riuscendoci. Non sono invidioso, né della fortuna, né della bravura altrui. Ho cercato di concentrarmi molto su quanto posso e so fare io. Sono profondamente convinto che far le cose al proprio meglio sia in sé un obiettivo e un risultato nella vita. Sono anche aperto e fiducioso verso il prossimo, credo che la biodiversità sia una ricchezza per l’uomo prima ancora che per l’ambiente e ancora confido – come ricorda ogni tanto Ivano Fossati – che il buon senso possa salvarci da tutto e tutti.
In quest’ultimo anno, però, non ho avuto il coraggio di accettare che se avessi scritto – che so – della vicenda di Adro, non sarei stato più capace di prendermi in giro e liquidare la vicenda con la solita, facile, magari veemente, intemerata contro le mattane leghiste. Ho avuto paura di scrivere la verità e cioè che io questa stupidità, ormai, la odio.
Io odio questa gente che costringe gli altri a misurarsi con la loro stupidità.
Se le famiglie della vicenda di Sarah Scazzi o le gemelle Cappa del delitto di Garlasco che, rivelando una pochezza umana che non si può neppure raccontare, non hanno avuto alcuno scrupolo a strumentalizzare le loro stesse vittime per un po’ di felicità mediatica, mi fanno pena (non pietà), quelli che, morbosi, stanno davanti alla televisione a guardare questa gente raccontare, piangere, incolparsi a vicenda, io, ormai, li odio. Non è che li disprezzo. Li odio proprio.
Io odio quelli che, di fronte ad un qualsiasi argomento, dicono che “però hanno cominciato quelli dell’altra parte”. Non sono più disposto ad accettare questo pressappochismo umano, l’indifferenza assoluta verso tutto ciò che non sia interesse immediato e personale, l’incapacità di considerare l’esistenza di tutto ciò che è altro da sé.
Mi sento invaso da gente diversa da me, che non ha alcun rispetto per il modo in cui penso e vivo. Io, finalmente l’ho capito, questa gente ho iniziato ad odiarla. Ho capito e mi sono disprezzato.
È questo che non volevo vedere di me. È il coraggio di sapermi abitato dall’odio che mi è mancato fin qui. È questo il cancro che non volevo sputare fuori dalla bocca e che mi sono tenuto dentro assieme alle parole.

lunedì, ottobre 26, 2009

Scelte sub-ottimali

Nelle scorse settimane, mi sono lungamente interrogato su quale fosse l’atteggiamento più giusto da tenere in queste primarie del Partito Democratico. Votare chi? Non votare per niente? Onestamente, stanti le delusioni cocenti (non ultima quella sulla mancata battaglia contro lo scudo fiscale) inanellate negli ultimi anni, la mia principale speranza era che esse fallissero, così che al PD non restasse che un'ultima, vera scelta strategica: l’auto-scioglimento.
Avevo fissato la soglia dell'insuccesso a un milione di persone. Ritenevo che, se i partecipanti alle primarie non avessero raggiunto quel limite minimo, la sola cosa da fare per i Democratici sarebbe stata quella di chiudere baracca e burattini e darsi a alla pesca d’altura.
Già alle 11.30, però, i votanti erano stati 900.000. Anche questa volta, con ogni probabilità, il PD non si sarebbe estinto.
Allora, metabolizzato che le flebili speranze dell'opposizione avrebbero continuato ad essere legate a questo partito e a queste persone, ho cercato di essere logico e razionale. Senz’altro, a quel punto, la cosa più utile sarebbe stata che i votanti fossero il maggior numero possibile. Così mi sono recato al mio gazebo elettorale.
Mi si è posto dunque il problema di capire cosa convenisse votare.
Da un lato, la necessità di squadernare la struttura di un partito ormai infestato da figure (sulla cui qualità ci sarebbe molto da discutere) che non hanno una forza sufficiente a dire qualcosa di sinistra, ma ne hanno una bastante ad impedire che lo facciano altri mi avrebbe spinto a votare Franceschini. Vero è che un tale squadernamento sarebbe passato necessariamente non solo per l’auspicabile distruzione dell’attuale classe dirigente, ma anche per quella della forma partito. Su questo, devo dire, ho le idee abbastanza chiare: il PD che verrà non sarebbe migliore se i prossimi quadri dirigenti uscissero dai social network come Facebook.
Dall'altro, l'esigenza di razionalizzare l'identità del PD mi spingeva a votare Bersani. La vittoria di quest'ultimo avrebbe senz'altro rappresentato un ritorno dell'asse identitario del PD verso i più coerenti lidi della Socialdemocrazia. Ad elezione del nuovo segretario avvenuta, credo che nei prossimi giorni alcuni cattolici papisti del PD, la Binetti, Enzo Carra, Rutelli (se cattolico lo si può definire), usciranno dal partito. Questo credo sia un bene, perché il PD ha finito per avere tutti gli svantaggi dell'Unione (l'eterogeneità), senza prenderne i vantaggi (l'ampiezza del consenso). Resta una mia perplessità di fondo sulla strategia di posizionamento che Bersani (e più di lui D'Alema) vogliono adottare. Non ho preclusioni ideologiche verso un accordo con l'UdC. Ho però dubbi sulla percorribilità di tale opzione. In un dopo-Berlusconi che tutti speriamo vicinissimo, credo che Casini ed ancora di più il suo elettorato troveranno sempre più naturale un accordo con Fini. Allora lo splendido PD socialdemocratico di Bersani sarà votato interamente all'opposizione permanente. Ora, sono tutt’altro che sicuro che la cosiddetta "vocazione maggioritaria" che ha spinto Veltroni ad andare da solo alle ultime elezioni fosse la via più giusta da percorrere, ma ho sin da ora la chiara percezione che contro una neo-balena bianca a firma Rutelli-Casini-Fini, questo PD non vincerà mai.

Con tutti questi dubbi, sono andato a votare.
Apro la scheda elettorale e trovo 4 liste (naturalmente bloccate) che sostengono 3 candidati: quella di Marino, quella di Bersani e... due di Franceschini. Due liste!? Dueee?!!!??
Triste, davvero triste, ho apposto una X sulla casella di Bersani.

Stamattina mi dicono che ho vinto le primarie.
Allora com'è che sento dentro la stessa vitalità di un organismo unicellulare?

giovedì, ottobre 08, 2009

Attriti

La sensazione di queste ore è simile a quella che ho provato quando la macchina alla cui guida mi ero addormentato, poggiata sul proprio tetto a scivolare, stridendo, per metri e metri, si è finalmente fermata.
Poi, ricordo il silenzio e le dita muoversi tutte. In bocca, avevo un sapore di asfalto, ferro e vetro a conferire fisicità e realtà a un’esperienza che altrimenti non mi sarebbe parsa un fatto.
Ho appena rischiato di morire, pensai, ed era tecnicamente vero.
Ricordo che mentre la terra stava sopra il cielo, aspettavo, inerme, che tutto finisse, troppo stordito per sperare che ci sarebbe stato un dopo, in cui tutte le cose mi sarebbero riapparse come le conoscevo. Poi, a un certo punto, quella corsa capovolta si è fermata.
La fisica, banalmente, parla di attrito.
Questi mesi, anzi questi ultimi anni della nostra vita pubblica mi hanno riportato a quell’abitacolo, quando ogni riferimento era perduto e guardarmi precipitare verso chissà dove era la sola cosa che sapessi fare. Ieri, finalmente, la corsa sul tetto si è di nuovo fermata e le cose sono tornate ad essere uguali a quelle di cui abbiamo sempre avuto esperienza.
La materia di cui sono fatte le nostre istituzioni è elastica ed atta ad essere tirata, piegata, in qualche caso addirittura plasmata, secondo convenienza. Esiste però un limite intrinseco, invalicabile per colui che voglia modellarla: quello imposto dalla natura stessa della materia. La carta (anche quella Costituzionale) si può comprimere, schiacciare, tenere appallottolata dentro un pugno ben serrato. Per quanto sia forte la pressione esercitata su di essa, però, i legami fra le cellule che ne compongono la struttura la porteranno comunque a riprendere di nuovo la sua forma originaria, naturale, non appena la stretta che la costringe verrà meno.
Certo, oggi, la nostra Carta è tutta spiegazzata ed è necessario avere cura che essa possa ridistendersi completamente, rendendo di nuovo facilissima a chiunque la lettura del suo messaggio. Di esso ieri è stato riaffermato un punto fondamentale: ogni cittadino, per quanto ricco, popolare, potente e prepotente egli sia, è uguale agli altri di fronte alla Legge.

mercoledì, giugno 10, 2009

Colle der fomento

La crisi, prima finanziaria, poi economica ed ora già sociale, così difficile a interpretarsi relativamente a cause e fattori scatenanti (i mutui dati a chiunque? Le speculazioni coi derivati? La mancanza di limitazione ai movimenti di capitale? Le cartolarizzazioni? L’economia che ha mangiato la politica e la finanza che ha mangiato a sua volta l’economia? Tutte queste cose assieme?), ha invece, quanto agli effetti che da essa sono scaturiti, risvolti di interpretazione, se non facile, immediata.
Il più evidente è che molti hanno perso, stanno perdendo e perderanno il lavoro. Un altro, credo altrettanto evidente, è che quelli che hanno la fortuna di conservare il proprio posto lavorano di più e con condizioni peggiori. La crisi, i lavoratori, la pagano (cioè la paghiamo) anche così, con maggiore fatica quotidiana, con maggiori frustrazioni, con una minore libertà.
La crisi porta anche una minore capacità di capire quel che succede, come se fosse sempre più assurdo usare il proprio tempo e le proprie scarse residue energie per guardare a fatti che sono estranei al proprio immediato spazio vitale.
Probabilmente con poca lucidità, dunque, m’accingo a riflettere sugli esiti delle elezioni appena celebrate. Il primo elemento su cui mi viene da soffermarmi è il coinvolgimento davvero blando con il quale ho seguito il voto. Nonostante sia vero che il PD correva il rischio di dissolversi, non mi sono sentito sospirare profondamente per lo scampato pericolo. Questo mi accade non perché pensi che il PD debba scomparire, ma perché resto convinto che questo PD isolato, isolazionista e senza identità non serva assolutamente a nulla. In politica sono quello che gli spin doctor chiamerebbero un “cliente ormai fidelizzato”: con un sistema di valori di riferimento ben radicato e con una collocazione ideologica (ah, che strana sensazione scrivere questa parola) ben definita. Ebbene, nonostante questo, il mio sentimento rispetto a questo PD è quello del “tanto peggio, tanto meglio”. Non è l’inquinamento dell’Idea Pura, non è l’avvicinamento al centro (che ritengo un’opportunità e una necessità insieme) alla base del mio distacco, ma la resa rispetto all’ambizione di proporre una propria idea di società. Il povero Franceschini, cui va riconosciuto d’essersi saputo battere con onore (soprattutto sul fronte interno), ha saputo dare una pallida idea di cosa potrebbe essere (e purtroppo non è) il PD in un’unica occasione, quando, per una volta con la nettezza che dovrebbe esserci sempre, ha manifestato sdegno verso i respingimenti preventivi dei clandestini. Un Partito degno della tradizione di PCI e DC difende il diritto internazionale, la legalità e i diritti umani a prescindere dall’impatto elettorale che ciò può avere. Proprio la crisi offre un’opportunità grandissima a chi ha nel suo patrimonio valori come la solidarietà, la legalità e l’uguaglianza e ancora una volta si è invece deciso di veicolare messaggi elementari, inarticolati, rancorosi, esclusivamente centrati sulle (peraltro palesi) insufficienze dell’azione di governo. Se si è fatto tutto questo per ragioni legate all’esito elettorale, ebbene si prenda coscienza che il 26,1% è un risultato perfettamente alla portata anche di un PD che mostri con grande decisione una sua propria identità.
Penso, contrariamente a molti, che il risultato del PdL sia stato numericamente lusinghiero. In una fase di crisi così acuta, i governi (di destra o sinistra che siano) incontrano grandi difficoltà. La contrazione di consensi che, in termini di voti assoluti, Berlusconi ha conosciuto a queste ultime consultazioni europee si deve primariamente all’astensionismo di una Sicilia in cui ha stavolta votato meno del 50% di un corpo elettorale che solitamente garantisce al centrodestra una messe imponente di suffragi.
Nondimeno, sono emersi dalle urne due fatti politici che ritengo pongano al premier più di una difficoltà. Il primo è che i risultati più eclatanti sono stati ottenuti da Lega e Italia dei Valori, ovvero da quei soggetti immediatamente contigui nello schieramento politico ai due maggiori partiti. L’Italia mostra col voto di essere un Paese che non ha voglia di bipartitismo e non desidera una semplificazione del quadro politico che sia artificialmente indotta per il tramite della legge elettorale. Questo, ancor più che le pressioni della Lega, spiegano l’immediato cambio di posizione sul referendum sulla legge elettorale della prossima settimana.
Il secondo elemento di difficoltà per il leader del centrodestra è costituto dal fatto che la dimensione massima, il potenziale complessivo di PdL e Lega, al netto delle redistribuzioni interne di consensi, rimane ben lontano da qualsiasi ipotesi di autosufficienza. Il voto di questa settimana ha dimostrato (non senza rudezze) a Berlusconi che sporgersi verso l’elettorato centrista di area UdC significa lasciare una considerevole parte di consensi alla Lega.
Entrambi questi fattori rendono sempre più difficile che le elezioni politiche si trasformino in quel plebiscito che Berlusconi desidera fortemente e che vede come il proprio personale lasciapassare per il Quirinale.
Quella del Colle è una partita che non so capire come potrà finire, però già da ora guardo ad essa con timore, come ad un passaggio durissimo, da cui il Paese potrebbe uscire definitivamente sfibrato.

giovedì, aprile 23, 2009

Radici e terra

Da un paio di settimane ho un nuovo hobby, obbligatorio: il giardinaggio. Ho comprato una casa nuova e da meno di un mese vivo lì. Ora sono al piano terra ed ho due splendidi giardinetti, uno su un lato della casa, uno sull’altro. Il giardiniere che ha fatto il lavoro (benissimo, va detto) è stato categorico ed anche un po’ apocalittico nel tono:

- “Hai voluto il prato, il barbecue, i nani da giardino, eh? Le domeniche con gli amici? E adesso fatichi. Il prato va tagliato tutte le settimane e concimato ogni due mesi. Questo fino a maggio. Poi, quando fa caldo, va tagliato due, anche tre volte a settimana. Non tagliarlo troppo corto. E non lasciarlo crescere, se no si ingiallisce.”

A queste parole, pur se timidamente, ho tentato di obiettare almeno che detesto i nani da giardino. Lui però è stato implacabile:

- “D’estate, mi raccomando, ogni due, tre giorni. E ricorda: io ci tengo ai lavori che faccio, sicché fa’ che io non venga a sapere che ti si è ingiallito, diradato o spelacchiato il prato. Va bene?”

Credo d’avergli risposto “Signorsì, sissignore”, mentre usciva ghignando da casa mia.

Ho il pollice nero, da sempre, sin da quando, da bambini, le maestre delle elementari ci facevano mettere un fagiolo dentro lo Scottex bagnato, ci dicevano di chiuderlo nell’armadio della classe e di lasciarlo lì, al buio, per una settimana, quando poi sarebbero spuntate le radici e la nuova piantina sarebbe stata pronta per essere interrata. I miei fagioli marcivano sempre, immancabilmente. Forse perché, per il terrore che durante la settimana al buio gli mancasse acqua, inzuppavo completamente lo Scottex. O forse perché non resistevo a stare sette giorni senza sapere cosa stesse succedendo e andavo troppo presto a vedere cosa fosse accaduto al mio fagiolino.
Adesso ho un prato meravigliosamente verde, che curo con applicazione. Gli scherani del giardiniere sono arrivati una mattina con un camion pieno di tappeti arrotolati (almeno questo sembravano) ed hanno cominciato a stenderli nel mio giardino, fino a tappezzarlo completamente. Mi hanno spiegato che per un paio di settimane non avrei dovuto calpestarlo, perché il prato “cresce tanto sopra la terra, quanto sotto”. Mi dicevano che avrei dovuto dare il tempo alle radici del prato di innervare il terreno del mio giardino. Sono stato bravo, questa volta: non ho aperto l’armadio prima del tempo.
Ci siamo spostati tutti a casa nuova. Pensavo stamattina che anche noi stiamo mettendo radici bianche, tenere nel nostro nuovo giardino. Anche noi stiamo faticosamente trovando i nostri spazi nelle stanze, i nostri piccoli posti al sole. E come per il fagiolino nello Scottex e il tappeto erboso, anche per noi le prime settimane saranno delicate e ci sarà bisogno di lasciare che le cose abbiano il tempo di fare il proprio corso.
Ogni trasloco costringe chi si sposta ad un piccolo (o grande) autodafé. Sistemando le mie cose, ho riaperto scatole che erano rimaste chiuse sin da quando lasciai la casa dei miei genitori. A quel tempo, scelsi di portare con me il mio passato, come una lumaca si porta appresso la sua chiocciola, ovvero tenendomelo alle spalle, senza guardarlo mai. Stavolta, ho voluto invece vedere da cosa fosse ormai tempo di separarmi e, con mia piacevole sorpresa, sono stato capace di liberarmi di quasi metà dei simulacri che avevo voluto custodire.
Ancora di più sono rimasto stupito da ciò che invece ho voluto caramente tenere con me. Ho trovato, ad esempio, una quantità incredibile di lettere. Ne ho ricevute moltissime, centinaia, alcune di esse colme di parole meravigliose. Nel rileggerle, dopo così tanto tempo, ho provato un senso di inquietudine. La domanda che mi sono fatto, mentre mi rituffavo in persone, situazioni, ed emozioni che sono ormai superate, lontane è “Sarò stato capace di corrispondere a tutto l’affetto, a tutto l’amore che c’è qui dentro per me?”.
Ad esempio, ho trovato le lettere di una mia amichetta del mare, di quando avevamo dieci, dodici, forse tredici anni. Era una delle mie amicizie estive di Luglio. Ogni anno, con la sua famiglia, veniva da Napoli e stava l’intero mese in affitto in una casa vicina a quella dove io ho passato tutte intere le prime venti estati della mia vita. Bè, per tutti gli anni in cui ci siamo frequentati, finite le vacanze e tornati tutti a casa, mi scriveva da Settembre (quando ci si ridisponeva in modalità “invernale”) a Dicembre (immancabile il biglietto di Natale) delle lettere tenerissime, piene soltanto di vita quotidiana, di problemi di scuola, di amiche invidiose, di ragazzini molto carini. Quelle parole trasudavano soltanto voglia di ritrovarsi anche l’anno successivo.
Ho trovato alcune lettere di bambini, che mi scrivevano una volta rientrati nelle loro città, dopo aver passato qualche settimana nel villaggio vacanze in cui facevo il musicista. Alcune di esse mi hanno davvero emozionato: praticamente di nessuno di quei bambini ricordavo il nome e neppure il viso e quasi tutti, invece, mi chiedevano soltanto di non scordarmi di loro. Mi scrivevano riportando un sacco di aneddoti e dettagli della settimana in cui erano stati al villaggio, per essere certi che non li potessi confondere con altri bambini. Quasi tutti mettevano nella busta un disegno in cui avevano ritratto me e loro che ci salutavamo al momento della loro partenza.
Non so se io abbia davvero meritato tanto affetto. Sicuramente non ne sono stato all’altezza. Abitato da un senso di inadeguatezza, ho con cura ordinato tutte le parole che mi sono state regalate, riponendole, perché non si sciupassero, in buste trasparenti e plastificate. Le ho poi messe in una scatola di cartone molto bella, che è decorata interamente da righi musicali, fitti di note e pause.
E, vigliaccamente, le ho sepolte di nuovo in cantina, lontano dai miei occhi e dal mio cuore.

venerdì, marzo 13, 2009

Simplement Parfaite

Anche oggi, come ogni giorno, la matita ha dipinto il mio occhio. Una linea nera, materica, grassa rende, per contrasto, più luminoso il mio sguardo e, fuggendo verso le tempie, sa suggerirmi più esotica, misteriosa, segreta. Del resto, in questi anni lo specchio mi ha spiegato ogni mattina di essere proprio così: una regina Nefer. Lo stesso fanno le parole, le mani e gli occhi di Federico in ufficio, tutti i giorni. E prima di lui quelli di Marco all’Università e di Alessandro al Liceo.
Sono venticinque anni che ogni mattina il mondo sa quel che deve sapere di me grazie ad un tratto di matita. Ho gesti ormai sicuri e automatici: una mano stende la palpebra e l’altra definisce le forme, coprendo ogni piccola, impercettibile irregolarità dei lineamenti. Insieme al contorno dei miei occhi, disegno anche la mia sicurezza, la mia forza, il mio coraggio. Così, qualsiasi ansa in cui si annidino le mie parti molli è coperta da un tratto uniforme. Ogni mattina do un buffetto a Pirandello e dimostro che è la me che gli altri vedono a mettere d’accordo tutte le altre me.
Non sarei capace di uscire di casa senza quel segno deciso, scuro, netto che marca i miei occhi. Eppure, appena compiuti i quarant’anni, mi vergogno di questa debolezza che vuole annullarne ogni altra. Vorrei urlare a tutti la rabbia che ho per una solitudine che non merito, vorrei concedermi la fragilità di desiderare apertamente la felicità, vorrei vendicarmi dell’umiliazione di dover essere obbligatoriamente bella, desiderabile e inaccessibile.
Vorrei piangere tutti i giorni per quel figlio che non ho mai fatto.

Un'ultima occhiata allo specchio prima di uscire di casa.
Semplicemente perfetta.

lunedì, febbraio 02, 2009

Terzo stato di coscienza

Tutto ciò che l’uomo vedeva era un puntino bianco, lontano, al centro di uno sconfinato mare nero. In un silenzio assoluto, forzava se stesso a fissare quell’unica diversità, quell’unico segno. Più il suo sguardo si concentrava sulla piccola macchia di luce, quasi a volerla inchiodare, più questa sembrava danzare, sinuosamente sottraendosi a quello sciocco tentativo di dominio. Anzi, beffardamente, il puntino sembrava pulsare, i suoi contorni smarginarsi, manifestando con baldanza il proprio libero arbitrio. L’uomo non avrebbe saputo dire dove si trovasse, né come fosse finito lì. Provava sensazioni attutite, come se la sua coscienza fosse interamente avvolta da una bambagia lanuginosa che gli rendeva difficili sia la percezione, sia il ragionamento. Poteva soltanto mettere in fila pensieri elementari, senza però riuscire a stabilire alcun collegamento logico tra di essi: “Ho la gola secca… Senti come raspano sul palato le papille in fondo alla lingua … Ho la saliva molto amara… Il sangue mi pulsa alle tempie e sui polsi…”.
Con gli occhi continuava a seguire il puntino, che gli pareva ora più grande e più vicino. Ebbe desiderio di tendere la propria mano verso l’ondivaga macchiolina chiara, a misurare la distanza fisica che lo separava da essa. Il cervello aveva trasmesso l’impulso nervoso, ne era certo, perché la spalla aveva lievemente sussultato, ma l’arto, ostinato, rimaneva immoto, parallelo al corpo. Sorpreso, realizzò di non riuscire a vedere il proprio braccio, perché, si accorse, si trovava sdraiato sulla propria schiena. “E poi” - si disse – “è buio.”
Provò a muovere le dita della mano ed inviò impulsi al pollice, al mignolo e poi a tutte le dita insieme. Non seppe dire se ne avesse mossa una, due oppure tutte. Non sapeva quale sensazione corrispondesse alla certezza di aver mosso le dita della mano. Non sapeva neppure se avesse una mano. Le deboli istruzioni che il suo cervello mandava si perdevano da qualche parte a metà strada, senza la forza di arrivare a destinazione. La bocca disegnò un tenue sorriso.
Tornò a concentrarsi sul puntino, anzi su quello che ora era un grande disco luminoso a pochi centimetri dal suo viso. Provò a cercare la sua immagine riflessa sulla superficie bianca. Vedeva, invece, solo luce. Percepì dolergli il nervo ottico, fisicamente colpito dal bagliore troppo intenso. Avvertì il dolore risalirgli dentro la testa, fortissimo, quale mai aveva provato in vita sua. Serrò i denti fino a romperli e sentì del liquido caldo uscirgli dalle orecchie. Gli venne alle narici un odore di rosa.
Poi basta.

mercoledì, dicembre 24, 2008

Cin cin

Si è discusso il caso di Eluana Englaro (e di suo padre Beppe) ben oltre il limite dell’umana pietà e, probabilmente, oltre quello della decenza. Immagino che la nostra invadenza (nostra in quanto pubblico pagante del circo dell’informazione) in una storia di assoluta sofferenza, rimasta lontano da qualsiasi clamore per più di quindici anni e poi finita sotto i riflettori del dibattito politico-istituzionale, sia per la famiglia della ragazza di Lecco difficile da sopportare tanto quanto il pensiero di una morte innaturalmente desiderata, che giunga, infine, come requie, riposo, silenzio. Quanto maggior rispetto si dovrebbe invece osservare nei confronti del coraggio straordinario di chi, pur fiaccato dal dover assistere ogni giorno per anni ad una morte in continue piccole dosi (e non credo ci si possa mai mitridatizzare a questo), per compiere l’estremo atto d’amore verso una figlia, ha avuto la forza di sfidare la politicizzazione della propria sofferenza!
Dopo la pronuncia della magistratura che, nel rispetto della volontà che Eluana aveva precedentemente manifestato nella pienezza delle sue facoltà, ha autorizzato la sospensione dell’alimentazione forzata, si sono aperti non uno, ma due fronti di scontro ideologico, assoluto e violento. Secondo abitudine, gli italiani hanno avuto il piacere di schierarsi con vigore secondo le proprie convinzioni, mostrandosi però al contempo incapaci del benché minimo rispetto del dolore altrui. A dividere la platea non è soltanto il tema della misura del diritto all’autodeterminazione, ovvero del se e in che misura a ciascuno di noi possa rivendicare le facoltà di un vero e proprio “diritto di proprietà” sulla propria vita. Sappiamo benissimo come il dibattito nel Paese su temi di questa natura finisca per essere fortemente influenzato dal ruolo che la Chiesa esercita nella vita pubblica e nella politica italiana, rispetto alla quale il Vaticano oggi può vantare (e di fatto fa pesare) una sorta di golden share riconosciutagli da entrambi gli schieramenti. In questo senso, la vicenda di Eluana è solo l’ultima di una lunga teoria di questioni sulle quali la Chiesa ha con forza preteso di far valere le proprie ragioni (testamento biologico, diritti dei conviventi, utilizzo delle cellule staminali per fini di ricerca, fecondazione assistita solo per citare le prime che vengono alla mente).
Ma il caso degli Englaro è stato cooptato anche nella polemica di strettissima attualità che ha ad oggetto i rapporti tra magistratura e politica. La querelle che vede da tempo opposti i giudici ai politici verte principalmente sul seguente dibattito: è preminente il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge oppure quello secondo il quale un parlamentare votato dagli Italiani deve godere di una tutela eccezionale perché possa espletare senza condizionamenti di sorta il suo compito di rappresentanza? La politica deve o non deve avere un ultimo grado di controllo sulle indagini promosse dai giudici nei suoi confronti? Il giudice risponde esclusivamente alla legge oppure anche ad altri organi dello Stato?
La legge, oggi, non regola esplicitamente il caso di Eluana, ovvero quello di un adulto caduto in stato di incoscienza permanente che abbia in passato manifestato in maniera libera ed inequivocabile la propria contrarietà ad essere mantenuto in vita artificialmente. Non c’è una previsione legislativa che dica a chi spetti, eventualmente, di dare corso a quella volontà individuale ovvero secondo quali modalità si debba procedere. Il giudice, allora, adito dai familiari della ragazza, ha colmato questo vuoto legislativo, arrivando, come peraltro la legge gli attribuisce facoltà e responsabilità di fare, ad una determinazione fondata sull’applicazione al caso concreto dei principi generali del nostro ordinamento. La richiesta di Beppe Englaro ha fatto sì che sia stata, di fatto, la magistratura, e non la politica, a regolamentare un tema dai risvolti etici tanto delicati qual è quello della misura del diritto all’autodeterminazione.
Nessuna pietà umana (prima ancora che cristiana) ha impedito nei giorni scorsi al Ministro Sacconi di andare apertamente contra legem e di minacciare esplicitamente le cliniche che eventualmente si dicessero disponibili ad ospitare Eluana perché sia data attuazione alla sentenza che permette di staccare i sondini tramite i quali la ragazza viene alimentata artificialmente. La presa di posizione dell’ex esponente socialista, da un lato, mira a riaffermare, anche funzionalmente alla disputa sull’autonomia della magistratura, una supremazia della politica nelle relazioni istituzionali, dall’altro si premura di preservare il consenso ed il credito che tanto generosamente le gerarchie vaticane hanno accordato a gran parte dell’odierna classe politica italiana.
Si sa che guardando all’infinitamente grande, ogni caso particolare scompare, mentre guardando all’infinitamente piccolo, qualsiasi regola generale perde significato. Nell’inevitabile relativizzazione di ogni verità, a cui siamo costretti dalla nostra natura e dalle nostre misere capacità, c’è una cosa però che penso si possa ritenere ormai oggettiva, certa, definitivamente acquisita: la pochezza, prima di tutto umana, di Sacconi. Oddio, non che questa piccola verità ci aiuti a campare meglio. Sacconi rappresenta, fortunatamente, pochissimo nelle nostre vite. Diciamo, però, che per chi è abbastanza frustrato dalla propria sostanziale incapacità di dare l’attributo di Vero ad alcunché, l’assoluta pochezza di Sacconi è una specie cordialino per brindare al nuovo anno.
Auguri.

giovedì, ottobre 30, 2008

Ossimori emotivi

Non so dire se si provi più rabbia o rassegnazione nel leggere le cronache degli scontri tra studenti avvenuti a Piazza Navona, di fronte a forze di polizia immobili colpite da fulminante apatia. La rassegnazione nasce dal prendere atto che ormai assistiamo a fatti estremamente gravi come quello accaduto ieri, lasciandoceli scivolare addosso senza reagire, guardandoli alla tv con il terribile distacco che riserviamo alle vittime di lontani terremoti in regioni sperdute del Medio Oriente.
Eppure, già nelle settimane scorse, si era stigmatizzato un atteggiamento del Presidente del Consiglio, se non di interesse, quantomeno di partecipata attesa, riguardo alla possibilità che le pacifiche manifestazioni di contrarietà al decreto Gelmini venissero funestate da violenze fra partecipanti. Ricordo il timido Veltroni lanciare l’allarme per la definizione di “facinorosi” che il premier aveva riservato agli studenti manifestanti. Oggi, anche facendolo con un maggiore vigore che Veltroni non mostra di avere, riuscire a spiegare agli Italiani quanto pericolose possano essere le parole è impossibile. Nel corso degli ultimi quindici anni, Berlusconi ha dimostrato (convincendo pienamente i suoi avversari a mutuarne gli atteggiamenti) come la comunicazione politica debba essere confezionata come se si parlasse ad un bambino di dodici anni. Il sottoprodotto di ciò (gli storici sapranno dire se e quanto esso sia stato voluto o meno) è che oggi quasi l’intero mondo della comunicazione appare regredito a tal punto da parlare esso stesso come un bambino di dodici anni. Ormai “agguerriti”, “esaltati”, “scalmanati”, “facinorosi”, “violenti”, “comunisti” e “fascisti” sono, alfine, divenuti sinonimi e questa indistinta confusione lessicale ha generato simmetricamente un'incapacità ed una mancanza di volontà di analizzare, contestualizzare e, in definitiva, spiegare quel che accade. Oggi a nessuno è chiesto conto delle parole che usa, tanto che nella politica è ormai sempre più in voga l’abito di rilasciare dichiarazioni, che, saggiatone in tempo quasi reale l’impatto, vengono immediatamente corredate di un’interpretazione ufficiale, autentica. Tutto così è sottratto a qualsiasi valutazione indipendente e nessuno deve mai rispondere di alcunché.
Di qualche giorno fa sono i mirati consigli che il Presidente emerito Cossiga ha voluto dare a mezzo stampa al suo successore al Viminale Maroni. La rassegnazione è anche nel vedere quanto frusto sia ormai il ricettario delle sconcezze politiche: la solita manipolazione della pubblica opinione, la solita infiltrazione di soggetti consapevoli o strumentalizzati, la solita repressione del dissenso con il beneplacito della maggioranza silenziosa ed abbindolata. E dunque, per tornare a ieri, il solito camioncino di persone venute a menare un po’ le mani, a sentirsi un po’ più importanti del nulla che sono e ad eseguire il proprio compitino, esattamente come altri avevano deciso dovessero fare.
Sono cose già viste centinaia di volte in Italia.
E la rabbia? Lo scontro politico degli anni settanta aveva ad oggetto l’idea stessa di Stato, la nostra collocazione nel mondo. Ci si spendeva con vigore (fino ad eccessi che hanno generato mostri, come tutti sappiamo) per cambiare la propria posizione sociale, per chiedere un mondo migliore ed una società più giusta. Si perseguivano, cioè, obiettivi, se non si vuol dirli alti o nobili, comunque ambiziosi, ai quali in ogni epoca uomini di ogni convinzione hanno scelto di consacrare la propria vita.
Beh, la rabbia è constatare come oggi la nostra passione politica si risolva in maniera praticamente esclusiva nell’azzuffarci affinché la fazione alla quale abbiamo deciso di appartenere sia vincente e possa consolidarsi al potere. Viceversa poco o nulla interessa oggi dei contenuti della politica, cioè di ciò che dovremmo considerare il fine ultimo della nostra stessa partecipazione politica.
L’Italia, oggi, è un impenitente Dongiovanni, che, ricevuto finalmente il fatidico invito a salire su a bere qualcosa, sorride, esulta, rimonta in macchina e va a casa a vedere la tv.

martedì, ottobre 07, 2008

Mission impossible

Assonnato e di normale malumore, guidavo verso l’ufficio. Solito traffico, solito percorso, solita andatura da cane zoppo, almeno fino all’apertura delle gabbie di quel grande cinodromo che è il GRA. L’abitudine è una compagna rassicurante e ad essa ci aggrappiamo specialmente ad inizio giornata, quando c’è da vincere il pensiero di tutti gli impegni che ci attendono.
La spia era di un bell’arancione vivido, sin dalle sei di pomeriggio del giorno prima. In questi casi, però, ho ormai perfetta cognizione dei chilometri di autonomia che corrispondono all’esiguo, infinitesimale spazio che separa l’asticella dell’indicatore della benzina dallo zero assoluto. Infatti, dopo poche centinaia di metri, ecco un grande cartello verde ad indicare che a circa duemila metri da dov'ero si trova un distributore che pratica il conveniente prezzo di 1,322€ al litro.
Nonostante questo, ho rischiato lo stesso di rimanere a piedi. No, non ho dovuto spingere la macchina per arrivare dal benzinaio. Semplicemente sono piombato in una forma di trance, dalla quale sono riemerso soltanto quando l’area di servizio appariva piccola piccola dentro il mio retrovisore. Ho pagato la fortuna di trovare di lì a pochi minuti un altro distributore, rifornendo all’astronomica cifra di 1,402€ al litro. Maledizione.
Il fatto che è che stavo sentendo musica, come faccio quasi sempre mentre guido. Ricordo la progressione geometrica finale di Nord, con il sax tenore, il sax alto, la tromba e poi il loro ensemble ad accavallarsi su due temi magici come quelli che solo il vecchio astigiano sa tirar fuori. Anche ora che ci ripenso, visualizzo l’immagine che sempre mi si condensa nella mente quando ascolto quel pezzo: un grande prato in altura, l’aria fina e pungente, colori eccessivi per troppa vicinanza al cielo e profumi vergini. Finito il brano, dopo qualche secondo di fiatone post-coitale, mi sono risvegliato e ridevo, di vera contentezza.
Tutto ciò mi capita spesso, quando ascolto musica. Penso che essa sia un mistero, una magia, un dono. La musica mi porta schegge di verità. Quel che di me e del mondo non so capire con gli sforzi ottusi della mia povera intelligenza, me lo rende chiaro la musica. Essa usa quali parole le nostre sensazioni indicibili, compilandoci le emozioni direttamente in linguaggio macchina.
Così, rispondere ad una email tutto sommato innocente, dall’onesto titolo “Una dura missione…”, con cui un mio collega molto simpatico mi chiedeva di dargli i titoli delle dodici canzoni a mio giudizio più belle, s’è rivelato un impegno veramente duro. Mi sono portato, ovviamente, il lavoro a casa. Non potevo correre il rischio di tralasciare qualcosa di fondamentale, per difetto di una memoria a volte labile. Ridurre la forza comunicativa della musica in dodici esempi è di per sé un esercizio estremo, un volteggio ardito, un’acrobazia avventata e proprio non mi sarei potuto cimentare, senza almeno la rete di salvataggio dei miei cd ordinati alfabeticamente. È stato un processo di violenza inaudita, ai limiti della stupidità, dover scegliere tra Fossati e Jimi Hendrix, tra John Lennon e Giovanna Marini. Però quello era il cimento e quello ho fatto, sia pure non fino in fondo. Non sono riuscito a scendere sotto i 14 brani. Sarebbe stato troppo doloroso dover selezionare ulteriormente.
Ancora di più mi ha pesato non riuscire a separare bene tutte le componenti che immancabilmente entrano in gioco quando si fanno valutazioni come queste. Quanta parte delle mie scelte è dipesa da quello che pensavo sarebbe piaciuto al mio collega? Quanta parte invece è dipesa dal mio particolare umore di quella giornata? Considero un disco nuovo o un artista sconosciuto come un regalo da scartare. Quanto ha pesato nelle mie scelte il piacere che sempre mi dà fare regali? Impossibile dirlo. Il fatto è che ogni volta che si guarda un quadro, lo si ridipinge daccapo. Ho imparato da tempo che ciò è naturale e, perciò, inevitabile. Dunque, lo accetto, però mi fa rabbia.
Rispondendo al mio collega, ho accompagnato la mia lista con la data, il luogo e l’ora delle mie scelte, pur consapevole che ciò non sarà bastevole a salvarmi l’anima.

Hothouse Flowers - Be good
Dave Matthews Band - Stay (Wasting time)
Living Colour - Love rears its ugly head
Led Zeppelin - In my time of dying
Queen + David Bowie - Under pressure
Peter Gabriel - Sledgehammer
Bob Dylan - Jokerman
C.S.I. - In viaggio
Vasco Rossi - ....stupendo
Lucio Dalla - Treno
Paolo Conte - Nord
Gianmaria Testa - Per accompagnarti
Giorgio Gaber - Io se fossi Dio
Enzo Jannacci - Parlare col liquido

lunedì, settembre 01, 2008

I love this game

Io amo il calcio. Penso sia davvero il gioco più bello del mondo. Forse in nessun altro sport come nel calcio il risultato di una gara è così in bilico tra il poter essere deciso dall’invenzione di un singolo o dal furioso applicarsi di un coro senza corifei.
Ogni estate, nel periodo di secca, m’aiuto con lo sciocco vaniloquio del calciomercato e tento di autoconvincermi che l’attesa è davvero il più sublime dei piaceri. Insomma, consumo calcio, in maniera consapevole e convinta. Faccio parte di quella fitta schiera di calciofili che per vedere la miseria di venti minuti di servizi sulle partite della domenica, invece di rifiutarsi come orgoglio e dignità pretenderebbero, si beve pomeriggi di pessima tv, fatta di chiacchiere false e tonnellate di pubblicità.
Questo breve, eppur necessario, autodafé serve a dire che non sono in alcun modo apparentabile a coloro che sono soliti sdegnarsi per gli stipendi astronomici dei calciatori, a quelli che considerano una partita di calcio lo spettacolo di ventidue imbecilli in braghette dietro ad un pallone, ai tanti puri di cuore che, ogni quattro anni, in corrispondenza dei Giochi Olimpici, riscoprono quanta maggiore dignità risieda negli atleti del Keirin.
So accettare l’avida falsità dei procuratori, l’idiozia della moviola, il cinismo delle radio private che danno voce a tifosi che non hanno nulla da dire, la mancanza di qualsiasi etica nei rapporti tra squadre, a confronto delle quali le contrade del palio di Siena somigliano ad educande sprovvedute e ingenue.
C’è, però, una cosa che arriva a guastarmi il piacere del pallone, là dove non possono la cupidigia economica, l’insulsaggine e la disonestà: il tifo ultrà.
È notizia di ieri che i passeggeri dell’Intercity Napoli-Torino, in possesso di regolare titolo di viaggio, per provvedimento delle autorità di pubblica sicurezza, sono stati fatti scendere dal treno, a causa della presenza sul convoglio dei tifosi del Napoli, di nuovo in trasferta alla volta della Capitale dopo sette anni di divieti. Il provvedimento ha avuto certamente ragion d’essere, dal momento che all’arrivo alla stazione di Roma Termini il treno riportava danni per circa 500.000€.
Certo è gravissimo e realmente insopportabile che la collettività debba ripagare i costi di questo scempio. Non è però neppure questo che riesce ad inquinare la mia passione calcistica. Quel che davvero, in ormai sempre meno rari momenti di lucidità, mi rende impossibile continuare a consumare calcio è vederlo utilizzato come pretesto per una guerra eversiva.
Il solito, pervasivo conflitto di interessi del signor B. (proprietario di squadra e proprietario delle televisioni che comprano gli eventi calcistici) rende meno semplice che sui media si chiamino le cose con il proprio nome. Si parla di teppisti che non sono tifosi, si compatiscono le povere menti che si fanno coinvolgere da una delirante idolatria congiunta di Totti e Mussolini, si offrono raffinate letture sociologiche del disagio giovanile, si condanna duramente la violenza, si piangono i morti. Quasi da nessuna parte, però, si scrive o si dice che siamo di fronte ad un fenomeno di terrorismo eversivo, non so dire se più o meno grave del brigatismo, ma che certamente di quest’ultimo ha la medesima natura.
Da anni, ormai, le tifoserie (fatte salve alcune luminose eccezioni che pure non ci vogliamo far mancare) non combattono più le une contro le altre, ma uniscono i loro mezzi contro un nemico comune: lo Stato. La guerra ha per oggetto principale l’extraterritorialità dei luoghi del calcio: stadi, treni, autogrill, strade. Gli ultrà vogliono affermare il principio che, là dove c’è calcio, non vige più il sistema delle regole dello Stato, ma uno alternativo che lo Stato deve rassegnarsi a concertare con loro. Ho sentito esprimere ieri sera in tv moderata soddisfazione perché almeno stavolta non s’è dovuto raccogliere nessuno da terra. Ovviamente rende felici che nessuno abbia perso la vita. Non si può però dirsi soddisfatti di alcunché: se il punto vero del conflitto è l’accreditamento degli ultrà come parte belligerante, qualunque concessione, qualsiasi “apertura di credito” è già una sconfitta. La vittoria dello Stato, ahinoi, passa per le difficoltà che gli appassionati veri, i padri con i figli, desiderosi di vedersi la partita, sopportano per recarsi allo stadio, nella convinzione che se c’è un’emergenza da gestire, allora si accetta di veder compresse le proprie libertà: mostrare i documenti di identità per acquistare biglietti, non poter acquistare i tagliandi direttamente allo stadio, essere perquisiti fuori ed spiati dalle telecamere all’interno dello stadio. Se una lotta intransigente contro il tifo ultrà ha come prezzo tutto questo, ebbene sono contento di pagarlo e che si chieda di pagarlo a noi cittadini. In questo senso, allora, qualsiasi “apertura di credito” è un errore, anzi è un tradimento verso la società civile, che alla fine è la sola a patire veramente gli ostacoli della blindatura e della militarizzazione degli stadi.
Il tifo organizzato, con buona pace delle varie curve, non è parte diretta dell’evento calcio. Gli ultrà, nonostante i loro sforzi criminali, sono e restano un fatto accessorio, senza il quale il calcio può giocarsi magnificamente e, anzi, meglio. Il punto più basso a cui si è arrivati fu in un derby romano della primavera di quattro anni fa, che fu sospeso quando circolò la notizia, poi rivelatasi del tutto infondata, di una bambina investita ed uccisa da un’auto della polizia. I capi delle tifoserie entrarono in campo a “spiegare” a giocatori, giudici di gara e delegati della Lega calcio, che non c’erano più le condizioni per proseguire. E la partita, in un improvvisato summit di pubblica sicurezza, nel quale gli ultrà hanno avuto la parola definitiva, venne sospesa.
Tutto questo è non solo intollerabile, ma anche pericoloso e richiede una risposta forte, immediata, frontale. In ogni curva ci sono pochi capibastone, che utilizzano il collante dell’ideologia politica per accrescere e compattare la propria falange di ragazzi sempre più giovani. Con l’occasione, mentre arruolano e forgiano, realizzano fatturati di tutto rispetto. Per il bene del Paese (non del calcio), ritengo indispensabile che lo Stato agisca verso di loro come è doveroso fare di fronte a una strategia eversiva, che punta a minare (sia pure in un contesto definito e limitato, quello calcistico) l’ordine costituito.
Come insegna la storia di Al Capone, anche l’evasione fiscale può andare bene.

venerdì, agosto 01, 2008

Africa per noi

Ci insegnano a scuola che l’uomo è giunto all’apice della piramide evolutiva grazie alla sua elevatissima capacità di adattamento all’ambiente. Ognuno di noi, nel corso della propria vita, è in grado di sviluppare, meglio di ogni altro essere vivente sulla terra, le proprie strategie di risposta alle pressioni esterne, così da saper reagire in maniera efficace alle difficoltà che incontra.
Qui, nel cosiddetto primo mondo, sappiamo da tempo come appagare i nostri bisogni primari (mettere insieme il pranzo con la cena). Questo, però, lungi dal darci serenità, genera in noi desideri molto più sofisticati, che facciamo gran fatica a soddisfare e che ci rendono infelici.
In fondo, la società occidentale basata sui consumi ha terribilmente bisogno - per poter prosperare - della nostra frustrazione e dei bisogni che da essa scaturiscono. Di più, i signori neri del marketing, con strumenti sempre più raffinati, stimolano continuamente i nostri bisogni latenti, facendo leva sulle nostre pulsioni più intime. Estraggono dai nostri pozzi il vero propellente del sistema economico: l’infelicità.
Allora vogliamo donne eternamente belle e uomini potenti. Vogliamo macchine prestigiose e vestiti preziosi. Odiamo il nostro capo, con tutte le nostre forze, perché vorremmo essere come lui. Vogliamo dimostrare agli altri il nostro potere (per piccolo che esso sia), esercitandolo in maniera arbitraria e terrorizzante. Vogliamo essere accettati da chiunque, a qualsiasi costo, in qualunque contesto: l’importante è essere in gruppo ed avere qualcuno sotto di noi. È una vita, la nostra, totalmente permeata dall’angoscia, anzi dalla paura del giudizio altrui. La sola cosa che ci dà brevi momenti di pace (non credo di poterla chiamare felicità) è sentire l’invidia degli altri compagni di catena. Questo ci fa presumere di non essere gli ultimi in fondo alla lista e ci rassicura per un po’.
Due persone a me molto care, ciascuna per proprio conto, sono state in Africa quest’anno. Quando ho chiesto loro di dirmi della loro esperienza, la prima cosa che ambedue hanno avuto praticamente l’urgenza di raccontare è stata la difficoltà a rientrare in un sistema di vita totalmente governato da bisogni irragionevoli e paure irrazionali. Mi hanno detto di un vero e proprio smarrimento nel non saper riconoscere più le ragioni dell’importanza fondamentale che siamo soliti attribuire ad alcuni aspetti della nostra vita quotidiana. L’Africa porta, necessariamente, ad essere essenziali e a riappropriarsi di quelle felicità semplici che qui diamo sempre per scontate. Entrambe mi hanno parlato di un periodo di almeno una decina di giorni in cui sono state combattute da sentimenti in reale contrasto tra loro: da un lato la voglia di rimanere aggrappati alla felicità nuda, viva, reale, immediata, saporita che l’Africa ha donato loro, dall’altro il desiderio di tornare a quel pezzo di mondo ormai aderente in maniera perfetta alle loro forme. Come se, tornate, non vedessero l’ora di riavere conficcata nella pelle quella spina che era in loro da sempre e che l’Africa gli aveva tolto.

La mia Africa è Paolo Conte.

martedì, luglio 01, 2008

Presidance

Dentro il Partito Democratico le acque sono comprensibilmente agitate. Chi più apertamente, chi meno, molti dei leader stanno presentando il conto a Walter Veltroni, sia per la sconfitta elettorale, sia per la riluttanza mostrata nel volerne analizzare in maniera formale e collegiale le ragioni.
Uno degli argomenti oggetto di discussione riguarda la Presidenza del PD: pur per ragioni diverse, tutte le principali componenti del partito si dicono (oggi) d’accordo nel ritenere quasi naturale che Presidente sia Romano Prodi. Di quest’ultimo, però, è ben nota la più volte ribadita indisponibilità ad assumere la carica.
Sono giorni, questi, in cui il tema delle priorità dell’agenda politica è assai dibattuto. Vien da chiedersi se la questione di un incarico in genere più onorifico che operativo sia davvero una delle attuali priorità del PD, in questo momento in cui l’economia va male, la società (se possibile) va ancora peggio dell’economia ed il capo del Governo torna a squadernare le fondamenta istituzionali della Repubblica per risolvere le sue proprie beghe personali.
Io credo di sì.
Mentre non vi sono dubbi su come il PD si ponga (e probabilmente continuerà a porsi) rispetto all’esperienza dell’Unione, credo che esso debba chiarire a se stesso che rapporto ha con ciò che sono stati Prodi ed i suoi governi e con l’esperienza dell’Ulivo.
Trovo che la discontinuità che c’è stata con l’insediamento di Veltroni sia stata grandissima. Si dice che il PD di Veltroni sia un partito a vocazione maggioritaria e che questa sua attitudine sia stata dimostrata in primo luogo dalla scelta (ancorché non compiutamente percorsa) di presentarsi da soli alla competizione elettorale. Ancor di più, a mio modo di vedere, l’abito maggioritario è forte nell'affrontare le questioni interne al partito. In virtù del 75% di consensi ottenuto nelle primarie, Walter Veltroni ha abbandonato ogni forma di dialettica interna, non solo relativamente alla definizione della linea politica del partito (che può giudicarsi cosa imprudente, ma non scorretta), ma anche su alcune questioni fondanti il PD stesso, che per l’incapacità di operare una sintesi tra le diverse anime del partito, sono rimaste aperte, prima fra tutte la collocazione sullo scenario politico europeo.
Veltroni vuole Prodi presidente nonostante questa differenza profonda, per ottenere da lui quel placet sulla sua leadership che darebbe al suo 75% formale una corrispondente forza sostanziale. La Bindi vuole Prodi presidente per costringere Veltroni a prendere atto che la sua guida non è oggi e mai potrà essere il regno di un sovrano assoluto, che bisogna riprendere la via del dialogo paziente che Prodi ha sempre seguito nel tentare di armonizzare i percorsi di post-comunisti e post-democristiani e che proprio nell’aver voluto dare per scontati alcuni passaggi identitari si trovino le ragioni dell’entità della sconfitta elettorale.
Prodi, dal canto suo, ha le sue ragioni per negare l’endorsement a Veltroni. In primo luogo, è stata tatticamente incomprensibile la celebrazione delle primarie ad incoronare il leader del nuovo PD a non più di un anno dalla vittoria di Prodi del 2006. Questa situazione non poteva che provocare un logoramento reciproco (si ricorderà, ad esempio, l’attivismo di Veltroni, allora leader in pectore, mal sopportato da Prodi a Palazzo Chigi, all’indomani della morte della povera signora Reggiani), che è stata una delle vere ragioni della caduta del governo di centrosinistra. Secondariamente, ancora una volta per una supposta convenienza tattica, Veltroni ha in campagna elettorale scientificamente ripudiato in toto l’esperienza del governo Prodi. Si può dire che se non ha mai nominato Berlusconi, chiamandolo “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”, altrettanto ha fatto con l’ex presidente del Consiglio, buttando con l’acqua sporca dell’impopolarità anche il bambino del riequilibrio dei conti e di un ciclo economico tornato virtuoso.
Tutto questo si traduce oggi in correnti che si organizzano (D’Alema), in pretese di convocazione degli organi del partito (Bindi), in richieste di cambio al vertice (Parisi).
Un PD acefalo non solo non fermerà Berlusconi (ed anzi avrà la responsabilità di un’eventuale ascesa al Quirinale dell’uomo che più di ogni altro ha diviso il Paese invece di unirlo), ma neppure vincerà mai le elezioni se e quando mai si tornerà a votare. Spero che in primo luogo Veltroni se ne renda conto quanto prima.

lunedì, maggio 26, 2008

Italo

Mi chiamo Italo, a luglio compio quarantanove anni e vivo a Roma. Ho una moglie e tre figli (due maschi e una femmina). Di mestiere faccio il tranviere, cioè guido l’autobus. Voglia di studiare ne ho sempre avuta poca, così ho smesso dopo tre anni di ragioneria. Quando lo dissi a mio padre, lui non batté ciglio e mi portò dal sor Mario, che aveva l’officina giù all’Acqua Bullicante. Il sor Mario era amico di mio padre (anche se a casa nostra non veniva mai) e così mi prese a bottega. Nel quartiere si diceva che se avevi problemi di baiocchi, potevi andare da lui “che se glieli chiedi, te li presta…”. Non lo so se davvero dava i soldi a strozzo (certo, gente col cappello in mano se ne vedeva in officina), ma con me il sor Mario è stato una brava persona. Ci ha provato ad insegnarmi il mestiere, compreso come si fa a dare qualche fregatura a qualcuno che se lo merita, ma io in realtà non volevo fare il carrozziere e così lasciai perdere. La verità è che non avevo voglia di lavorare. Ero bello, a quel tempo. Lo so che ora che sono così, con la pancia, la pelata in testa e i peli che escono a ciuffi dal naso e dalle orecchie, è difficile da credere. Ma ero bello. Mi piaceva andare al mare, a Ostia, giù ai cancelli. Andavamo io e Franco, con il mio Vespino, e stavamo tutto il giorno a dare la caccia alle ragazze. Il primo che beccava, tornava a casa con la Vespa e la ragazza, l’altro da solo con l’autobus. A Ostia, fra l’altro, vidi per la prima volta mia moglie.
Quando smisi di andare dal sor Mario, mio padre non mi rivolse più la parola. Io entravo in una stanza e lui usciva. Io mi sedevo a tavola e lui si alzava per andare a vedere la televisione. Mia mamma soffriva terribilmente questa situazione. Ogni volta che provava a dire a mio padre “Alfio, è ancora un ragazzo…”, lui le rispondeva “È un ragazzo un bel cazzo. Quello vuol fare solo la bella vita!” e sbatteva con forza la mano sul tavolo, come a darmi quello schiaffo che non mi ha mai mollato davvero.
Mia mamma era una donna molto semplice e religiosa. Andava a messa tutte le settimane. Una domenica mattina, dopo la funzione, andò da Don Lino, il parroco, a parlargli di questo figlio che non voleva avere né arte né parte. Don Lino mi conosceva, nel senso che sapeva chi ero e ricordava che, quando avevo sette, otto anni, andavo con i miei compagni a fare il chierichetto. Qualche domenica dopo, il prete, licenziati i fedeli con la formula canonica, fece cenno a mia mamma, che come sempre era in prima fila, di seguirlo in sagrestia. Dandole le spalle mentre riponeva con cura i paramenti, le disse che le porgeva la benedizione del cardinal Rocchi, al quale il presidente dell’azienda comunale trasporti, devotissima persona di cui l’alto prelato era insieme padre confessore e consigliere spirituale, aveva manifestato la propria preoccupazione per la difficoltà di trovare giovani assennati che potessero diventare buoni autisti. Don Lino le disse anche che ero atteso l’indomani mattina all’azienda trasporti.
Sono quasi trent’anni che guido gli autobus. Da quando ho iniziato, è cambiato tutto. Una volta guardavo dentro lo specchietto retrovisore e vedevo persone attente a non prendersi più libertà di quanta non ne concedessero il decoro e la buona educazione. Gli anziani erano seduti ed i giovani restavano in piedi. Si vedevano scarpe consumate ma lucide e giacche con le toppe ai gomiti. L’autobus della mattina era un pieno di persone prima di tutto ricche di decenza e rispetto verso se stesse. Insomma, era un’Italia un po’ più povera, ma molto più dignitosa.
Oggi, ragazzine dell’età di mia figlia salgono in gruppo, ridendo e strillando come se fossero sole in una piazza deserta. Hanno quindici anni e sono vestite alle nove di mattina come quelle che alla sera sono in televisione. Quando sono fermo al semaforo, le spio dal retrovisore. Se si accorgono di essere osservate, si mettono in posa e fissano lo specchietto come fosse una telecamera accesa. Non penso mai che mia figlia è una di loro. Anche mia figlia farà così? Sicuro, anche se in realtà non lo so. Veramente non so niente di lei. Quando ero ragazzo, era mio padre a volermi evitare, oggi è mia figlia. Sta sempre insieme a quell’amica sua cicciottella, Nadia, e non si sa mai dove vadano né con chi stiano. E poi (altro mistero) è sempre al cellulare; il suo telefono, tra sms e chiamate, squilla continuamente. È mai possibile che solo io, quando la chiamo, lo trovi invariabilmente chiuso? Non so neanche se va bene a scuola, se ha un fidanzato, se è ancora vergine. Niente. Parla solo con sua madre. Le sole volte che mi rivolge parola è quando mi chiede soldi: per andare al mare con gli amici, per la ricarica del telefonino, per la benzina del motorino, per qualsiasi cosa. Bisogna che la madre glielo dica che tocca cambiare registro. Perché tanto la colpa è di mia moglie: quando io mi impongo e nego qualcosa ai figli, lo so che lei alla fine, di nascosto, gliela dà. Lo fa perché vuole essere la genitrice preferita. Stronza. E invece una regolata se la deve dare pure lei, la stronza, perché, tra il mutuo, la rata della macchina e tutto il resto, di soldi non ce n’è più e non è più tempo di buttarli via comprando sandali e occhiali da sole alle bancarelle da quei Mustapha, Ibrahim e Mohamed, che non ho capito perché poi devono venire tutti qui, invece di starsene a casa loro, in Africa o dove gli pare.

E ora? Che c’è adesso? Ah, eccone un altro che non sa dov’è che deve scendere. Ma non lo sai che non si parla al conducente? Bello mio, se non sai qual è la tua fermata, sono cazzi tuoi. È la vita, mi dispiace.
Io, finito questo giro, vado a casa.

domenica, aprile 06, 2008

You are here

In questi giorni, sono molto popolari sulla rete i test di auto posizionamento politico. Praticamente, si dà risposta ad una serie di domande su alcuni dei principali temi oggetto di dibattito e alla fine si ottiene un diagrammino, nel quale sono evidenziate le distanze tra chi fa il test e i vari partiti che sono oggi impegnati nella campagna elettorale. Ne ho fatti un paio, che mi hanno dato risultati tra loro molto diversi. In un caso, le mie posizioni si sono sovrapposte in maniera praticamente perfetta a quelle di un certo partito; nell’altro la minor distanza rilevata (comunque significativa) era quella che mi separava da una formazione politica che appartiene ad uno schieramento per il quale non ho mai votato. Come sempre accade nelle indagini di qualsiasi tipo, le risposte possono venire facilmente influenzate dal modo in cui sono formulate le domande: ad esempio, un conto è chiedere se si vuole il ritiro delle truppe dall’Afghanistan; un altro è chiedere se si è favorevoli ad un loro aumento, come richiesto all’Italia dagli USA. L’introduzione nella domanda dell’elemento “fedeltà atlantica” sicuramente non è neutrale rispetto al tema “ritiro dall’Afghanistan” ed esso finisce per avere un forte impatto sulle risposte. Credo che, in realtà, la valutazione vada fatta al contrario, cioè misurando la distanza dei partiti dalle nostre convinzioni.
Io vorrei un paese più autonomo dalle ingerenze vaticane e dunque sono favorevole alla più ampia libertà di ricerca, sono contrario all’equiparazione tra scuola pubblica e privata, sono contrario alla revisione della legge sull’aborto, sono favorevole alla regolamentazione delle unioni civili per i conviventi, che è giusto non chiamare “matrimonio” (in senso antropologico), ma che generano “famiglie” che vanno riconosciute dall'ordinamento e tutelate giuridicamente.
Vorrei un paese che persegua un europeismo non di facciata. Da anni sono convinto che quest’economia globalizzata potrà trovare un suo equilibrio solo quando si saranno affermate tre grandi macroaree (attorno a euro, dollaro e yuan rispettivamente), omogenee e liberalizzate al loro interno, ma ben protette ai loro confini. Vorrei un paese che lavorasse perché il nostro blocco diventi omogeneo e saldo il prima possibile, perché questa è la sola maniera di guadagnarci il lusso di rimanere quello che siamo oggi. Per questo essere ricompresi nel corridoio 5 è troppo più importante delle ragioni pur giuste, ma particolari dei comitati NO TAV.
Penso – come dice Giulio Tremonti – che bisogna lavorare per una nuova Bretton Woods e per la riforma del WTO. Penso che bisogna impegnarsi per il rilancio delle grandi istituzioni internazionali, per affermare un vero multilateralismo nella politica estera mondiale.
Vorrei che qualcuno avesse il coraggio di dire che la lotta di classe esiste ancora, ma che le classi sono cambiate. Oggi la lotta di classe è tra i giovani ed i vecchi. Non vedo nessuno che si domanda se non vi sia qualcosa di sbagliato e di perverso nel fatto che il nostro mercato del lavoro prediliga i giovanissimi diplomati ai laureati. Io credo che quando un sistema spinge a non studiare, a non prepararsi ci sia qualcosa di incredibilmente sbagliato. Penso perciò non che siano da proibire le forme contrattuali atipiche, bensì il loro uso così disinvolto. Le aziende hanno il sacrosanto diritto di poter gestire - anche tramite il lavoro parasubordinato - temporanei picchi e momentanee crisi, ma il sistema oggi in vigore di fatto impone a chi entra nel mondo lavorativo dai 4 ai 6 anni in media di insicurezze e disparità di trattamento, senza che alcun soggetto organizzato possa o sappia rappresentarne e difenderne le esigenze. Per questo sempre più ragazzi preferiscono non continuare a studiare: se, per poi trovare un posto a tempo indeterminato, si devono passare almeno 4 anni di lavoro precario, sottopagato e che poco o nulla contribuisce alla pensione, allora è ragionevole scegliere che questi anni siano ancora quelli in cui si è in famiglia e si è ancora giovanissimi. Oggi, in quelle famiglie fortunate in cui questo può avvenire, i padri e i nonni sussidiano i figli e i nipoti. Penso dunque si debba avere il coraggio di rivedere certi meccanismi ormai acquisiti, come la frequenza con cui le carriere automaticamente avanzano grazie agli scatti di anzianità, e di innalzare in maniera considerevole l’età a cui si va in pensione.
Penso che il varo di una legge sul conflitto di interessi e l’introduzione di un maggiore pluralismo nel mercato dell’editoria e della raccolta pubblicitaria siano due priorità assolute.
Penso che l’indipendenza della magistratura, frutto di un dettato costituzionale antifascista, sia un bene comune da preservare.
Penso sia giusto ribadire che il compito di ogni governo deve essere facilitare la creazione di nuovo reddito ed attuare meccanismi di redistribuzione, piuttosto che favorire l’accumulazione di ricchezza.
Penso che si possa scegliere di abbassare il carico fiscale, riducendo la spesa pubblica e le competenze nazionali a favore delle regioni, ma solo a patto che l’Italia continui ad essere un paese in cui non si muore per strada, in cui a nessuno è negata almeno la sussistenza e in cui i diritti fondamentali (istruzione, salute, sicurezza) continuano ad essere garantiti ad un livello omogeneo su tutto il territorio nazionale.
Penso che ci sia bisogno di fare chiarezza estrema tra liberalizzazioni e privatizzazioni. Sono a favore della presenza di una pluralità di attori in tutti i settori economici, ma ritengo che in Italia, in quella che si è chiamata “la stagione delle privatizzazioni”, ci si sia invece limitati a trasformare gli ex monopoli pubblici in monopoli privati. Credo che oggi sia fortissima l'esigenza di rimediare a questo errore.
Penso che il nostro paese sconti una dipendenza energetica troppo grande e che un progressivo ridursi del fabbisogno del petrolio, nell’attesa – almeno ventennale - che le fonti rinnovabili possano essere sfruttate grazie a tecnologie più efficaci ed efficienti, possa essere realizzato sia tramite la realizzazione dei rigassificatori, sia tramite un ritorno al nucleare.

Ecco, io sto qui.

mercoledì, marzo 12, 2008

Marketing esperienziale, FEEL

Certe volte mi immagino un dialogo tra Veltroni e un vecchio compagno del PCI, uno di quelli che ha fatto politica tutta una vita, non in Parlamento, ma sul posto di lavoro, in sezione e al bar del paese. Uno di quegli uomini fatti di sessant’anni che paiono settantacinque, di paga poca e lavoro da mulo e di bicchieri di rosso alle undici di mattina.
Immagino sarebbe una roba tipo Maciste contro i Dinosauri oppure Giulio Cesare contro i Samurai. Chiamiamo il vecchietto con uno di quei nomi romagnoli stupendi, che so, Olver oppure Ebro, accuratamente scelti dai genitori, una volta assodata l’inesistenza di un omonimo santo.
Facciamo si chiami Ornelio, ecco.
Io me li figuro Walter, anzi il Walter, e l’Ornelio davanti al bancone del bar della piazza di Premilcuore (FC), circondati da un po’ di persone. Vi lascio immaginare chi stia sorseggiando un tè verde equo-e-solidale e chi un bianchino frizzante.
Quasi me lo vedo davanti gli occhi il Walter che dice una roba tipo:
- “Eh, Ornelio, raccontaci. Raccontaci cos’era qui la Casa del Popolo e le ragazze con le gonne sotto il ginocchio e invitarle a ballare…”.
E l’Ornelio:
- “Ma non lo sai come funziona? Veltroni, ohè, ma tu a vent’anni non scopavi?”
- “Ma sì, ma sì, del resto ce l’avete insegnato voi come si fa. Allora, Ornelio, mi raccomando: ‘Yes, we can!’”
- “Ah, ecco, Veltroni, proprio a proposito di questo ti volevo chiedere una roba.”
- “Vuol dire ‘Sì, noi possiamo’. Lo so che per le persone che hanno una grande esperienza di vita magari non è immediato, ma l’America quando si tratta di sintesi bisogna lasc…”
- “Sta’ buonino, ché l’inglese lo so. L’ho studiato in sezione dal 1964 al 1969. Ho capito che ‘Noi possiamo’, però volevo chiederti: ma possiamo che?”
- “Goffredo (voltandosi verso Bettini), ricordiamoci di mettere nel programma che tutti i Super-8 delle feste delle Case del Popolo possono essere acquisiti in digitale gratuitamente come materiale culturale d’interesse nazionale. (Rivolgendosi poi di nuovo ad Ornelio) Ecco. Ora capisci cosa possiamo? Sei contento, Ornelio?”
- “Ci propri un quaiò, senza un bisinì ad pal, cun la testa bona sol par tenè so gli urecc!

mercoledì, febbraio 06, 2008

Ciascuno secondo le sue capacità, ognuno secondo i suoi bisogni

Son tante le questioni all’attenzione
di saggi, di filosofi e sapienti.
L’Essenza delle cose, che Platone
Idea chiamò, dicendoci valenti

a coglierne null’altro che un riflesso.
O l’obbligo del Dovere kantiano,
che vede esclusivamente in sé stesso
il presupposto dell’agire umano.

Ancora, l’impossibile fatica
di dare al mondo senso e direzione.
Non c’è chi questo meglio e più lo dica
di Wittgenstein, che nega ogni occasione,

prima ancor che al capire, al poter dire.
Ed ultimo il portato disgregante
di quel che Popper ebbe a definire
una cosa da cui ben sia distante

la pura mente vergine del bimbo.
A me vien solamente di poetare
su cose che si perdono nel limbo
dell’inutile, del particolare.

Ad esempio, mi dà un gretto piacere
raggiungere una vana perfezione,
lasciando netto, lindo lo sfintere,
espletata una copiosa eiezione.

venerdì, febbraio 01, 2008

Black dog

Bartho se ne stava appoggiato ad una quercia, a riposare. La lunga fuga lo aveva provato ed anche Koryx, cavallo nero, lucido, degno d’un Re, era sfiancato. Immerso nel bosco, ascoltava il fruscio continuo delle fronde, ad occhi chiusi. Nelle narici aveva il profumo del cuoio della lorica, in bocca il sapore della liquirizia. Sessanta miglia cavalcate furiosamente avrebbero spezzato la schiena a chiunque. Qualunque bestia sarebbe stramazzata al suolo, vinta dalla fatica. La paura, però, aveva saputo spingerli oltre i loro stessi limiti.
Dapprima si era lanciato lungo il corso del fiume. Poi, proprio nel punto in cui il verde si faceva tanto fitto da farsi notte, si era infilato nella foresta. Sempre al galoppo, senza voltarsi mai, quasi assaporava le frustate a sangue dei rami sulle braccia nude.
Ancora una volta, Bartho era sfuggito al suo destino.
Non pensava quasi più, Bartho. Scappava perché cercavano di ucciderlo. Ma non sapeva più la ragione per la quale aveva dovuto iniziare a fuggire. Non gli interessava più neppure ricordarla. Nei (sempre più) rari momenti di tregua, nei quali riusciva a lasciarsi indietro i cinquanta uomini, i cinquanta assassini, le cinquanta belve che il Cane Nero gli aveva sguinzagliato appresso, Bartho sintetizzava pensieri elementari, sulla regolarità del moto delle nuvole in cielo piuttosto che sulle carni sode dell’ostessa di Claterna.
Allungò una mano sul terreno e gli parve di sentire una vibrazione. Istantaneamente rivolse tutti i sensi a captare il pericolo, il nemico. A sentire arrivare la morte. Alzò gli occhi verso Koryx, interrogandolo mutamente. Il corsiero, scalciando nervoso, confermò: gli stavano di nuovo addosso. Bartho montò in sella e spronò vigorosamente. Non conosceva la foresta. La sola cosa certa era che loro erano dietro di lui. E allora doveva andare avanti, qualunque cosa ci fosse stata oltre la selva. Cercò di orientarsi con il rumore del fiume, ma senza successo. C’era solo da proseguire, senza domandarsi nulla. Bisognava solo andare avanti. E in fretta. La boscaglia andava diradandosi e il sole filtrava sempre più tra i rami. Koryx, sicuro, guidato dal suo istinto, avanzava ormai agilmente.
Il grande spiazzo si aprì inatteso davanti agli occhi di Bartho. Laggiù, finalmente, la salvezza. Tra la radura e la fuga risolutiva, quella che gli avrebbe dato di nuovo la libertà, c’era un salto di dieci metri. Lui e Koryx ce l’avrebbero potuta fare.
No. Lui e Koryx ce l’avrebbero fatta.
Senza un briciolo di esitazione, Bartho conficcò gli speroni nei fianchi del cavallo che nitrì e si lanciò come una folgore verso il vuoto. Bartho aveva i sensi tesi allo spasimo, tutto se stesso raccolto come una catapulta pronta a vibrare il colpo. Koryx era un cavallo formidabile, si staccò da terra esattamente sul limitare della roccia.

Si dice che, quando stiamo per morire, tutta la vita ci passi in pochi attimi dinanzi agli occhi.
Tutto ciò che Bartho pensò era che volare era davvero meraviglioso.

sabato, gennaio 05, 2008

In vino veritas

Stiamo, credo tutti a fatica, uscendo dal periodo delle feste comandate. Manca solo la Befana e poi potremo rimettere in cantina fino al prossimo otto dicembre l’albero di Natale (con tutte le palline), il presepe (con le statuine ogni anno sempre più sbreccate) e l’angoscia per pranzi, regali e parenti.
Giorni fa, agli inizi della kermesse natalizia, ero a comprare un po’ di vino all’enoteca in cui sono solito servirmi. Oltre alle tante etichette, il bravo Alessandro B. m’offre anche il suo piacere di far quattro chiacchiere, sul vino e non solo. Da un po’ di tempo compro quasi esclusivamente i vini cosiddetti “naturali”, ovvero prodotti secondo una metodologia che ha come priorità il rispetto del territorio. Essi sono frutto di coltivazioni non intensive (cioè a bassa resa per ettaro) e vengono ottenuti tramite tecniche di vinificazione tradizionali, senza l’uso di additivi. Il risultato è un vino inusuale, spesso spigoloso, dato che le sue caratteristiche più forti non sono in alcun modo smussate. Inoltre, proprio per l’assenza di stabilizzatori chimici, può anche esserci una grande variabilità nella qualità del vino, da bottiglia a bottiglia. Si tratta, riflettevamo con Alessandro, di vini difficilmente adatti al mercato di oggi. Il marketing pretende immediata riconoscibilità, alti margini di profitto, facilità di consumo, elevata standardizzazione. Vini tutti identici per consumatori tutti identici. La sola cosa che veramente conta è la quantità che si riesce a vendere, mentre la qualità è solo quella necessaria a fare la quantità.
È così ormai quasi per tutto. Lasciando da parte le considerazioni politiche (ad esempio se sia giusto o meno questo sistema economico, che premia quasi esclusivamente le proprietà), c’è un’altra questione, secondo me ormai ineludibile: questo capitalismo (iperconsumistico e globalizzato) e, soprattutto, il marketing – che del sistema è insieme guardia e cannone – producono infelicità prima ancora che ricchezza. Questa è una riflessione che non vogliamo fare e che ci pesa. Preferiamo assistere in TV (con sempre minore partecipazione) al racconto di tragedie familiari, che, pur se ormai frequentissime, continuiamo a dire imprevedibili e inspiegabili.
Al fondo di tutto, temo ci sia proprio l’ormai completamente avvenuta sovrapposizione di ciò che si è con ciò che si ha. Vogliamo soldi, potere, carriera per mostrare al mondo il nostro valore, nella speranza che gli altri, riconoscendolo in quelle cose, finalmente ci spieghino quanto davvero valiamo. Tutto è ormai genere di consumo, anche (e forse soprattutto) i rapporti personali. Alla radio, in questi giorni, si sente la réclame di una concessionaria di auto che, per invogliare i futuri clienti a comprare a rate una delle loro costosissime macchine, ha realizzato uno spot fatto più o meno così: una ragazza, con voce da Lolita in vena di capricci, fa: “Lo voglio, lo voglio, lo voglio, lo voglio… Subito!”. Il ragazzo, in un tono eccitato da adolescente devastato dall’acne masturbatoria, risponde pronto, speranzoso ed allusivo: “Lo vuoi? Eccomi”. A quel punto Lolita, immagino alzando distrattamente un sopracciglio, dice: “Ma chi? Tu? Io parlavo del…” e nomina un suv di ultima generazione, a cui daremo qui il nome fittizio di Baracca. Stacco musicale, poi uno speaker dà lettura del piano rateale che consentirebbe al giovane di possedere finalmente non la macchina, ma Lolita. Chiusura dello spot affidata a lui che, ammiccando a lei, a noi, a tutti, dice: “Nuova Baracca! E così magari….”.

- “Signori, è stato un onore suonare con voi stasera.”

venerdì, novembre 30, 2007

Apple pie, Charlie Brown?

C’era una volta un omino che vendeva fette di torta di mele. Non aveva particolari talenti. Non era un genio della matematica, quell’omino. Dalla sua bocca non uscivano parole dolci che facevano innamorare le ragazze. Però sapeva fare una torta di mele eccezionale. Si svegliava la mattina presto e, per prima cosa, cucinava la torta di mele. Poi, si vestiva, coprendosi bene, e si metteva all’angolo della via principale del paese a vendere i suoi dolci. Vendute tutte le fette, tornava a casa. E così si guadagnava da vivere.
Un giorno si disse: “Se invece di fare una sola torta ne facessi – che so – cinque, forse potrei anche comprarmi una coperta nuova. E magari pure una mucca. Però devo diventare più bravo. Oggi per fare una torta mi ci vogliono quattro ore. Devo riuscire a farne una ogni ora.”
E tanto si impegnò e migliorò che alla fine ci riuscì. Le sue torte erano talmente buone che sempre più persone venivano a comprarle. Ogni giorno c’erano clienti che arrivavano al suo banco quando le fette erano ormai finite e rimanevano delusi. L’omino non solo riuscì a comprarsi la coperta e la mucca, ma anche un maiale e una casa.
Allora l’omino si disse: “Ormai sono diventato bravissimo a fare le torte. Certo, se avessi qualcuno che al mattino mi prenda le uova fresche dal pollaio e qualcun altro che, mentre impasto, mi accenda il forno, potrei farne cinquecento, invece che cinque. Figuriamoci poi quante potrei farne, se solo avessi un secondo forno. Se poi cucinassi le torte la sera e le vendessi non soltanto di pomeriggio, ma anche di mattina, potrei guadagnare ancora molto di più”.
Fu così che l’omino usò tutti i suoi soldi per costruire un secondo forno e per pagare altre persone che preparassero i dolci insieme a lui. Ormai era in grado di cucinare un numero incredibile di torte, ogni giorno sempre più buone. Comprò anche un banco più grande per vendere le fette.
Si sentiva felice.
Un giorno, però, qualcosa cambiò. Era ormai quasi mezzogiorno e, stranamente, nessuno si era ancora fermato al suo banco. Anzi, tutte le persone che solitamente venivano a comprare le sue torte passavano di lì e andavano via. L’omino non sapeva cosa pensare. Finalmente vide arrivare verso il suo angolo uno che conosceva.

- “Buongiorno, signore. Vuole un po’ di torta di mele?”
- “No, la ringrazio.”
- “Ma guardi che oggi le faccio un prezzo speciale: solo tre monete.”
- “No, grazie. Ne ho già mangiate già tre fette oggi.”
- “Impossibile. Non l’ho vista, oggi. Oggi, a dir la verità, non è venuto nessuno. Non ho venduto neppure una fetta.”
- “Ho mangiato tre fette di torta alla festa. Si figuri, poi, che erano gratis e allora me ne han date anche altre due da portarmi a casa.”
- “Non sapevo che ci fosse una festa in paese e neppure che regalassero la torta di mele. E dov’è la festa?”
- “Giù in piazza, vede? Lì, dove ci sono i palloncini e la musica.”
- “Ah. E si può andare liberamente in piazza?”
- “Certo, liberamente. Entrare costa solo cento monete.”

venerdì, novembre 16, 2007

Con quella faccia un po' così...

Domani sera, più o meno alle undici, sapremo se il commissario tecnico della nostra nazionale di calcio è un grande stratega o un perfetto imbecille. Spartiacque è la partita contro la Scozia, compagine che si è insospettabilmente, ma con pieno merito, insediata tra le pretendenti alla qualificazione ad Euro 2008.
Noi italiani siamo maestri nel produrre luminose analisi chiarificatrici. Siamo soliti, però, esercitarci nella nobile arte dell’esegesi soltanto a risultato avvenuto. Posso essere certo, dunque, che dopodomani mattina i quotidiani sportivi e non saranno ben pieni di preziosi articoli che ci spiegheranno come e perché il nostro allenatore sarà stato o non sarà stato in grado di mettere i nostri in condizione di battere i pronipoti di William Wallace.
Io sento invece il desiderio di dire subito da che parte sto. Io reputo Donadoni un bravo cittì e spero che domani sera l’Italia ce la faccia.
Mi piace il suo essere sempre normale, anche noioso se si vuole. Mi piace la misura che cerca di tenere in ogni dichiarazione. Mi piace che sia più un uomo di campo che da salotto televisivo. Mi piace che ragioni come un atleta e non come un uomo di spettacolo. Mi piace che non abbia cercato pateticamente di essere diverso da quel che è, accettando di pagare il fio di un carattere che lo rende tutt’altro che benvoluto a quanti campano raccontando il calcio agli Italiani in una maniera sempre e comunque sopra le righe.
Mi piace che sia il simbolo della brevissima parentesi rivoluzionaria del calcio italiano, quando, dopo il temporale che spazzò via Carraro, Moggi e soci, una classe dirigente federale diede un segno di discontinuità forte, puntando su un vero outsider per la sostituzione del campione del mondo Lippi. A ben vedere, questo è il peccato originale che ancora il mondo del calcio non perdona a Donadoni: non la sconfitta con la Francia, non il pareggio con la Lituania, ma l’essere stato nominato da quelli che possono essere considerati i Mazzini, Saffi ed Armellini della FIGC, ovvero Rossi, Nicoletti ed Albertini. Poi, al pari di quello che guidò la Repubblica Romana, anche questo triumvirato ebbe vita breve. I sempiterni Abete e Matarrese hanno preso di nuovo il comando dell’azienda-calcio e questo Donadoni deve sembrar loro una specie di monumento alla memoria dello scandalo di Calciopoli. Una roba da rimuoversi al più presto, tale e quale a una statua di Stalin a Mosca durante la Perestrojka.
Inoltre, sul piano tecnico, a prescindere da come andrà la questione della qualificazione (per la quale sono comunque ottimista), ritengo che Donadoni sia stato pienamente all’altezza del compito. Ha gestito, secondo me, in maniera impeccabile la vicenda dell’addio di Totti alla maglia azzurra. Lo ha fatto da vero uomo di calcio che difende l’onore dei suoi ragazzi. Probabilmente Totti è il giocatore più forte del mondo. Se non è il più forte, è uno dei cinque più forti. E sicuramente, nonostante le sue precarie condizioni fisiche, egli è stato fondamentale per la vittoria in Germania. Ebbene, in uno sport di squadra, non è accettabile che un giocatore, neppure uno forte come Totti, possa dire ai suoi compagni: voi fate le qualificazioni, che io torno alla fase finale. Il cuore dello scontro con Totti è stato questo. Il capitano giallorosso, il cui attaccamento alla maglia azzurra è peraltro fuori discussione dopo il prodigioso recupero fatto per il mondiale, ha provato ad imporre al ct questa condizione per il proprio impiego in nazionale. Nonostante la scelta lo rendesse ancora più impopolare e che in quel momento una polemica con il giocatore più rappresentativo d’Italia non rafforzasse affatto la sua posizione, Donadoni ha avuto la forza di tenere il punto, non accettando questo compromesso, che se da un lato gli avrebbe garantito la presenza di Totti in qualche eccezionale occasione, dall’altro gli sarebbe valso il sincero e giustificato disprezzo del resto dello spogliatoio. La bontà della scelta di Donadoni deve essere apparsa chiara anche a Nesta, il quale, dopo un iniziale atteggiamento tentennante, simile a quello tenuto per oltre un anno dal dieci giallorosso, ha poi dato notizia del suo addio definitivo alla maglia azzurra. Io credo che, dopo aver affrontato questi due casi, il rispetto dello spogliatoio azzurro verso Donadoni sia sensibilmente aumentato. Del resto, davvero l’allenatore della nazionale ha sempre tirato dritto per la sua strada, senza farsi condizionare più di tanto né dai titoli dei giornali, né dal prestigio degli illustri esclusi. Basti pensare al Del Piero che prima della doppia sfida con Francia ed Ucraina reclamava tramite stampa un posto fisso da punta per entrambe le gare. Risultato: 80’ da esterno sinistro di centrocampo contro la Francia e tribuna contro gli Ucraini. Di lì in poi, neppure la convocazione. D’altronde, sotto la guida di Donadoni, questa sta diventando la nazionale degli Iaquinta, dei Di Natale, degli Aquilani, dei Quagliarella, dei Chiellini, che può tranquillamente fare (e di fatto fa) a meno di alcuni senatori campioni del mondo. Nonostante una panchina traballante sin dall’inizio, il ritiro dal club azzurro dei due calciatori italiani migliori (Totti e Nesta) e gli infortuni di alcuni uomini cardine (Materazzi, Toni, Camoranesi per dire solo dei più importanti), la nostra nazionale ha fatto 23 punti in 10 gare (7V 2N 1P). È questo un ruolino di marcia che in un qualsiasi altro girone sarebbe stato più che sufficiente per una tranquilla qualificazione. Nello sport, però, c’è anche la bravura degli avversari - in questo caso gli scozzesi - e dunque siamo ancora qui a dover fare l’ultimo passettino.
E allora, stavolta, dopo ben quattordici anni di autocensura, dico: forza Italia. E forza Donadoni.

sabato, novembre 03, 2007

Italia fai-da-te

L’aggressione ai tre romeni di Tor Bella Monaca è stata opera di neofascisti. Loro, ovviamente, è la responsabilità materiale dell’azione. Ritengo, invece, che Walter Veltroni ne abbia la responsabilità politica. Se il sindaco di una città come Roma, che ha sempre accolto tutti, protestando formalmente con il governo di Bucarest, dice “Ora basta, i romeni hanno colmato la misura”, se anche quella cosa tumefatta e purulenta che dovrebbe essere (e non è) la sinistra di questo paese cede alla tentazione del consenso facile, assecondando gli istinti più bassi e le paure di una società che è sempre più difficile chiamare civile, azioni squadriste come quella di ieri sono la sola cosa che ci si può aspettare.
Oggi, dopo l’aggressione, il problema dell’immigrazione è rimasto esattamente tale e quale. La politica, però, spaventata da quel che ha combinato, fa prontamente marcia indietro. “No all’odio” scandisce stentoreamente il primo cittadino di Roma (e prontamente i giornali amici riverberano il nuovo Vangelo), a cui risponde una ferma dissociazione dall’azione criminosa e dai suoi autori da parte dei nostri post-fascisti, da poco faticosamente accolti nel club delle destre moderne ed europee. Oggi sono tutti ansiosi di operare quei sottili distinguo tra romeni mascalzoni e romeni onesti, tra immigrati regolari ed irregolari, che fino a ieri, secondo tutti, erano invece l’emblema di uno smidollato lassismo che sta consegnando questo paese ai barbari.
Io spero che tutti noi, nonostante l’illusionismo sociologico con cui la nostra tv ci seda, raccontandoci una realtà che non esiste, ci si renda conto dell’incredibile arretramento della nostra società che un fatto come quello accaduto ieri testimonia. Stavolta è toccato ai romeni, domani toccherà agli omosessuali, dopodomani ai laziali, chi lo sa. Stiamo accettando che qualunque minoranza, qualunque realtà che venga identificata come una minaccia, verso cui la risposta dello Stato sia giudicata (o anche sia effettivamente) insufficiente, possa essere oggetto di giustizia sommaria, individuale, assoluta.
Questo è l’ovvio risultato di una politica esclusivamente di piccolo cabotaggio, imperniata sull’ottenimento del consenso a tre giorni e trasformata in una permanente campagna elettorale continuamente in onda sui media.
Il PD serve solo a questo: a vincere questo tipo di competizione politica. Con buona pace dei romeni e di tutti gli altri “incidenti di percorso”, tra i quali l’aspirazione a una società più equa e libera.

lunedì, ottobre 15, 2007

EU-27

Aeroporto Baneasa di Bucarest. Lui avrà avuto vent’anni, lei sedici. Erano di fronte al gabbiotto del controllo passaporti. Io, lì, ero una nota stonata, vestito da consulente in trasferta. Lui la stringeva e la guardava negli occhi, i suoi palmi esasperatamente distesi, perché lei sentisse di essere contenuta tutta dal suo abbraccio (comunque incapace di impedire le lacrime di lei). Un addio, chiaramente. Una voce svelta, secca chiama il volo per Napoli e lui si incammina, come guidato da una forza inesorabile, verso il suo viaggio. Lei resta a guardare le sue spalle, con le braccia talmente conserte da abbracciarsi, di fatto, da sola, attendendo che lui si volti ancora una volta, in una teoria di ennesimi ultimi sguardi carichi di mestizia. Poi, il ragazzo consegna il passaporto al poliziotto e da lì in poi saranno solo ricordi. Lei resta sui suoi piedi per un po’, come se aspettasse di vederlo tornare indietro. Poi si arrende, gira i tacchi e va via, i lucciconi asciugati con la manica della giacca a vento. Lei a Bucarest e lui verso un futuro (?) da probabile prossimo caduto del lavoro nero in un cantiere campano della civilissima Italia.
Chiamano anche il mio volo. È pieno. Nelle prime file ci sono quattro bambini piccoli che piangono, forse per la paura dell’aereo. Due di loro sono accompagnati da quelle che sembrano le rispettive famiglie. Gli altri due bambini sono di colore, accompagnati da due giovani donne rumene, una delle quali certamente di etnia rom. Non posso fare a meno di fare pensieri forse razzisti o comunque esclusivamente fondati sul pregiudizio. Durante il volo i bambini si placano. Con uno di loro – bellissimo – iniziamo a giocare a distanza, nascondendoci reciprocamente agli sguardi dell’altro.
In fondo all’aereo ci sono due ragazze rumene, che nella sala d’attesa sedevano accanto a me. Non sono belle, ma vistose: una, piena di capelli ricci e rossi, aveva la sua foto in topless sullo schermo gigante di un telefonino dal quale sparava sms a velocità fotonica; l’altra, più minuta, orgogliosamente sfoggiando una scollatura generosa, calzava degli zatteroni di almeno 15 cm di tacco, interamente rivestiti di stoffa con disegno militare mimetico. Le accompagnava un italiano sulla sessantina, che al momento del controllo dei passaporti ha sussurrato qualcosa a un ufficiale rumeno, sulle prime perplesso. Si vede che l'italiano aveva padronanza della lingua. Insomma, tutti a bordo.
Aeroporto di Roma Fiumicino. Il bus che porta dall’aereo all’aerostazione ci ha lasciati di fronte ad un ingresso secondario del terminal, dove siamo stati, stranamente, di nuovo costretti alle procedure di sicurezza: metal detector, controllo liquidi, nastro per il controllo del bagaglio a mano. Poi, ancora una volta il controllo dei passaporti. Mi hanno spiegato che si tratta di una procedura standard per tutti i voli provenienti dalla Romania.
Ma non eravamo tutti nell’UE?
Come che sia, tutti i cittadini rumeni al loro primo ingresso nel Belpaese sono stati gentilmente (ma decisamente) invitati a lasciare le proprie impronte digitali nell’adiacente ufficio di polizia aeroportuale. Le porte erano aperte e tutti noi potevamo vedere quanto stesse accadendo. Ebbene, con mia ingenua sorpresa, sono state poste in stato di fermo non le due ragazze che accompagnavano i bimbi di colore, ma le due allegre famigliole. Vedi i pregiudizi talvolta come sono fuorvianti…
Intanto, quando le due ragazze rumene si sono accostate al gabbiotto del controllo passaporti, di nuovo l’italiano accompagnatore si è avvicinato loro. Il nostro fido guardiano di frontiera, inizialmente molto accigliato, ha concluso il proprio scrupoloso esame, chiedendo alle due se avessero già un’idea su come passare la serata. Tutti sorridevano molto.

Mi sono dato il bentornato a casa.

lunedì, settembre 24, 2007

La Signora è nuda

Povera Signora. Leggo oggi grandemente celebrato il pareggino che la Juventus ha strappato ieri all’Olimpico. C’era, comprensibilmente, grande attesa per vedere la ex-nobile dell’italica pedata in una sfida di vertice. E, passato l’impegno indenni, i bianconeri, pur con diversi accenti, sono oggi accreditati sui quotidiani delle caratteristiche di squadra in grado di lottare per titolo.
Io credo che ieri la partita abbia invece impietosamente dimostrato che la Juventus è destinata ancora a parecchi anni di Purgatorio. Quand'anche i bianconeri avessero vinto (chissà come sarebbe andata se avessero segnato il rigore) al cospetto di una Roma meravigliosa e sempre più cicala, la sensazione che ne avrei tratta sarebbe stata la medesima: il campionato non è una competizione in cui si possa pensare di eccellere, affidandosi al portiere più forte del mondo e capitalizzando al massimo il pochissimo che si sa creare.
Sarei sorpreso se questa squadra riuscisse a qualificarsi tra le prime quattro: Fiorentina, Palermo e Lazio (nonostante il doppio impegno) –secondo me – finiranno per arrivarle davanti. Il perché è presto detto: il mercato di quest’anno non è stato molto felice. Con l’eccezione di Iaquinta, i nuovi acquisti, se giocano, non convincono. Più frequentemente siedono in panchina. Tralasciando Buffon (per il quale è bene fare un discorso a sé: è il migliore del mondo e basta), i migliori giocatori juventini sono quelli della vecchia guardia, i quali, però, stanno inevitabilmente appassendo. Nedved, alla trentacinquesima primavera, ormai non può avere più il tremendismo agonistico che lo ha reso unico tra i giocatori dotati di tecnica, mentre Del Piero è da anni ormai alla ricerca di se stesso e il suo continuo affermare il proprio status di (ormai ex) prodigioso campione non fa che renderlo più tenero che antipatico. Restano Camoranesi e Trezeguet. Il primo è infortunato. Il secondo si conferma uno straordinario cecchino, ma è un giocatore che, per far male, ha bisogno di una squadra che produca per lui occasioni da rete. Ma, oggi, esiste dietro il franco-argentino, questa squadra? E, soprattutto, sarà migliore quella dell'anno che verrà? Non penso e dunque credo che l’estate prossima sarà ancora più difficile trattenere lui, Buffon e Camoranesi (le ultime prede da razziare della fortissima Juventus che fu).
Per ricostruire una squadra all’altezza ci vorrebbero i denari che non ci sono. E molti dei pochi soldi a disposizione se ne andranno per prolungare il contratto a un giocatore bandiera, che, a mio modesto avviso, è pronto per la carriera dirigenziale. L’orizzonte della Juve è ripartire dai Chiellini, dai Palladino, dai Nocerino: giovani, italiani, desiderosi di affermarsi, bisognosi di crescere sotto una guida esperta e capace. Ci sono molti giocatori del vivaio bianconero che sono oggi in provincia a farsi le ossa. Far rientrare alcuni di questi (Giovinco, Marchisio) e dar loro piena fiducia dovrebbe essere la scommessa del prossimo mercato. Praticamente, è il progetto della Fiorentina (Pazzini, Montolivo, Donadel, Pasqual, Semioli, Kuzmanovic, Gamberini), che però ha iniziato tre anni prima e conta su un patron più munifico e disposto ad investire.
Bisognerebbe la Juve si desse cinque anni per tornare al livello delle migliori (non ci sono scorciatoie), grazie alla maturazione degli ottimi giovani che ha. Per trattenerli e completare la rosa con qualche innesto di qualità, l’unica razionale soluzione, con buona pace della tifoseria, sarebbe rinunciare ad ospitare il lento, inesorabile declino dei costosissimi senatori: Trezeguet al Lione, Nedved in Arabia e Del Piero (con l’uccellino al seguito) a far coppia con il fonato Beckham negli USA. Così, tanto per dare qualche suggerimento sul mercato in uscita.
Si può comprendere che per i tifosi bianconeri abituarsi a questa nuova realtà possa essere difficile. Però, fossi in loro, mi accontenterei andasse così. L’alternativa, infatti, sarebbe vendere i promettenti gioiellini per trattenere ancora i vecchi (ma ormai demotivati) campioni. Già l’estate scorsa non so quanti – ma erano tanti – milioni dall'Inghilterra sono stati rifiutati per Chiellini. Sarà capace la dirigenza juventina di non cedere a nuove tentazioni? Se così non fosse, allora, altro che lottare per entrare nei primi quattro posti. Già la Uefa – credo – finirebbe per essere un miraggio.